
È di certo un mio problema, ma non ci riesco proprio ad apprezzare Judd Apatow e l’ultimo, Il re di Staten Island, non fa eccezione. Un mio limite, senza dubbio, visto che colleghi che stimo molto adorano film e autore. Ma alla 640^ storia di un ragazzo che non vuole crescere, che fa cose idiote perché non ha un padre e che trova la maturità solo quando trova un surrogato genitoriale, per di più pompiere, quindi membro delle forze dell’ordine, anche un gentiluomo crolla.
Stavolta Apatow rende la faccenda un po’ più interessante, soprattutto perché racconta la storia del protagonista Pete Davidson, della sua perenne adolescenza tra droga, goliardia, incapacità affettiva. Il film quindi ha dalla sua la sincerità, evidente dal finale: eppure, una volta che lo spettatore intuisce la sovrapposizione tra attore e personaggio, la tiritera è stantia, il gioco tra maschilismo e fragilità è sempre sdrucciolevole, il ritmo latita sempre perso tra i fumi dell’erba e di altre droghe, le battute fanno ridere di rado. E il protagonista è francamente insopportabile, anche con tutta l’empatia possibile, il suo politicamente scorretto è solo stupido, la sua ritrosia a crescere è lagnosa. Da qualche parte nel film e nei film del regista c’è una forza emotiva e una scioltezza di scrittura e regia che conquista: solo che io non la trovo.