
Cosa c’è di più contemporaneo, ovvero che parli di cose che formano il mondo in questo stesso istante, del linguaggio? Ozon struttura il suo nuovo film non solo sulla parola, ma proprio sul senso politico, culturale, emotivo e psicologico che la rende linguaggio, sul discrimine che non la rende mai neutra. Lo stesso titolo, nel film, diventa la pistola fumante che inchioda il “cattivo” alle sue responsabilità, perché la minima variazione di tono, di sfumatura linguistica possono cambiare tutto.
Nel raccontare la vera storia dell’associazione (La parola liberata, appunto) che rivelò i crimini di un prete pedofilo e la conseguente omertà della chiesa francese, Ozon si pone a metà strada tra l’inchiesta (Il caso Spotlight campeggia come locandina nell’ufficio del poliziotto che indaga) e il documentario umanista (punto di partenza del progetto) ed è la scelta giusta: Grazie a Dio parte dalle parole delle vittime, da tre modi diversi di raccontare la propria esperienza, dalla parola come azione e reazione e ci concentra sulla capacità che le parole di scavare dentro la verità, di ballare con essa, di mutarla e ovviamente celarla, negarla. Soprattutto, nella prima parte, il film è anche un piccolo saggio di messinscena della parola, di come dopo essersi liberata possa a sua volta liberare: il dolore, la giustizia. Persino l’immagine.