
È inutile cercare di scovare tutti i riferimenti e le suggestioni che Alea inserisce in La morte di un burocrate: sono doviziosamente elencati nei geniali titoli di testa composti come una circolare ministeriale, uno di quei documenti che trasformano la vita di Juanchin in un inferno quando deve recuperare la tessera del sindacato del defunto zio sepolta con lui e senza la quale la vedova non può riscuotere la pensione.
Tutte queste citazioni, da Bergman alle comiche del muto, sono certamente il simbolo dell’entusiasmo cinefilo del regista ma anche il modo stilistico per fratturare la convenzionalità del cinema di regime, attraverso il caleidoscopio stilistico: attraverso la burocrazia, simbolo del comunismo e suo scheletro, il film colpisce gag dopo gag gli elementi centrali del socialismo arrivando a mettere in discussione la retorica e l’iconografia stessa del regime con un crescendo di trovate e vivacità spesso sorprendente. Un film che non si ricompone mai, che si lascia andare al piacere del cinema, una sorta di meta-puzzle incessante in cui si prefigura quasi la frase di Lacan in Il rovescio della psicoanalisi: “Ciò a cui aspirate, come rivoluzionari, è un padrone. L’avrete”.