
Quando si taccia la serialità di aver ucciso il racconto o il cinema, non si sa – o si dimentica – che la serialità è da sempre il cuore della narrazione, la capacità di farti affezionare ai personaggi con la curiosità di sapere cosa accade dopo. Fin dai tempi degli aedi e dei cantastorie: quella figura è l’invenzione principale di La famosa invasione degli orsi in Sicilia, il film con cui l’illustratore Mattotti esordisce alla regia di un lungometraggio, e fa da cornice alla storia della ricerca del figlio da parte di un orso, di come diventa re degli umani e di come il potere corrompe sempre.
Mattotti riflette proprio sui segreti della narrazione, vi costruisce sopra il film più che ai riferimenti politici giustamente pensati per un pubblico di bambini e sembra voler fare un piccolo saggio sull’importanza sociale e culturale dell’arte del racconto (sarà un caso che la politica moderna viva di “storytelling”?): su queste basi è quindi libero di poter spaziare nella fantasia, di aggiungere e togliere rispetto al romanzo di Buzzati, di mescolare Enzo D’Alò e il suo tratto “metafisico” (inteso come De Chirico), l’impianto fiabesco e la vena epica del cinema d’avventura, il folk e il fantasy, la risata e la commozione. Missione compiuta anche e soprattutto grazie la fascino visivo e grafico di sfondi, luoghi, scene e colori capaci di riconnettere lo spettatore contemporaneo all’ancestralità, come prova a fare Ocelot.